La porta sbagliata, di Fabrizio Valenza

Finalmente. Un minimo di veste grafica accattivante. Titolo e numerazione dei capitoli che cercano di dare un minimo di atmosfera. E una simpatica professione di umiltà, in controcopertina, nell’invitare i lettori a segnalare eventuali errori nel testo. Piccolissimi, decisivi atti che ben predispongono prima ancora di iniziare. Iniziamo.
Incarico apparentemente ideale. Far da custode, per una settimana, alla splendida dimora di un amico, lussuosa, opulenta, dimostrativa nella sua pomposità. Anche se un tantino dissonante in certi particolari. Come una chitarra con una corda fuori tono. Da solo. Quasi. Unica compagnia, un cane gigante, ovviamente buonissimo a detta del padrone (quale cinofilo confesserebbe mai la pericolosità del proprio alter-ego animale?), ovviamente di aspetto spaventoso. E arrivano le sensazioni di disagio. I primi, forse immotivati, pruriti. Rumori, odori, zone della casa che si vorrebbe evitare. Una cantina. Forse normale. Impressioni di presenze aleggianti, che razionalmente non dovrebbero esistere. Un lutto recente non ancora completamente elaborato, che si evidenzia prepotentemente, uscendo da ogni anta di ciascun mobile della casa. Lutto di cui, forse, si è più coinvolti di quel che sembra. E i nemici possono diventare l’unico appoggio per uscire dall’incubo. Il peggiore. Quello proiettato dalla propria coscienza.

La porta sbagliata vuole essere un’opera angosciosa, soffocante, umida, di lotta personale contro se stessi. In parte ci riesce. Si resta sospesi fra “è” e “non può essere”, a cavallo fra immaginazione, autosuggestione direi, e realtà, nella classica dicotomia “sogno o son desto?”. Però si va avanti un po’ a strappi. La prima parte resta un po’ melmosa, poco accattivante. Anche poco credibile, forse, seppur nella sua struttura di racconto spettrale. Sono i capitoli centrali i più appassionanti, davvero si resta col fiato sospeso, nel canonico clima noir in cui si è circondati da un inafferrabile male, nato forse all’interno. Poi, il finale, riporta tutti coi piedi per terra, ma non senza una “uscita di servizio occulta”. Lascia una traccia accennata ma molto inquietante in una struttura solida, ragionevole, reale. Non può essere, ma forse è. Ci siamo abbastanza. Certo, lo stile, semplicistico e poco ritmato, nemmeno troppo cupo, non aiuta a creare le volute atmosfere, ma alla fine qualcosa di nero dentro il lettore rimane.
Ci si può immergere nelle atmosfere soffocanti di questo libro in una giornata umida, nuvolosa, senza pioggia, con luce fioca e nero attorno. Possibilmente lontano da tutto e da tutti.

(Giovanni Cattaneo)


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