Il patto, di Maria Teresa Tanzilli

La ricchezza, l’opulenza. Obiettivo malcelato di tanti. Soldi su soldi su altri soldi, all’infinito, a qualsiasi costo. Per sempre e senza rischi di cadute. Cosa si sarebbe disposti a fare per avere tutto ciò?
Villanova è una cittadina di provincia. Isolata, autoconfinata in una stretta vallata tra montagne imponenti, è senza ombra di dubbio ricca. Sembra un coacervo di benestanti, volutamente e “snobisticamente” ghettizzatisi in un luogo ai margini. Non c’è passaggio di gente a Villanova. Non è ben visto il turismo, non sono accettati forestieri. Un dorato eremitaggio per circa tremila anime economicamente felici. Tutte. Nessun abitante può essere considerato sotto la soglia dell’agiatezza.
A casa Grimaldi è una notte stranamente agitata. Luca, 13 anni, sente nell’aria, tra i genitori, un’atmosfera insolita. Sempre andati d’accordo, i suoi. Come quasi tutti, a Villanova. Ma Luca percepisce angoscia nella voce della madre. E il giorno dopo, quando col fratello Francesco si appresta ad andare a scuola, coglie la stessa strana atmosfera. Che lo accompagna fino alle soglie dell’edificio educativo. Troppi genitori presenti. Troppe facce contrite. Troppi abbracci, troppi silenzi. Cosa sta per succedere a Villanova?
Maria Teresa Tanzilli ha confezionato un racconto davvero tenebroso. Angosciante, da strapparsi l’anima. Pur essendo una rivisitazione di un tema piuttosto classico nella letteratura horror, l’attualizzazione e la lettura da contesto familiare rendono Il Patto davvero centrato. Perfette sono le dinamiche parentali descritte, fra genitori, figli e fratelli. Perfetto il fanciullesco punto di vista dell’opera. Certo, dal momento che non può definirsi romanzo, sarebbe potuto essere un pochino asciugato, per renderlo ancora più incalzante. Ad esempio, l’elemento tavola Oiuja, appare inserito un po’ a forza, tanto più che viene usato dai tredicenni come fosse un telecomando… dubito che il 99% degli adolescenti al mondo sappia cos’è – io stesso sono dovuto andare su Wikipedia – tanto meno padroneggiarla. Lo stile nella prima parte risulta inamidato ed eccessivamente aggettivato. Aggiungere un attributo ad ogni sostantivo appesantisce, non colora. Meglio sarebbe stato limare la maggior parte dei nomi e al limite riservare una più fantasiosa “retoricizzazione” ad altri. Anche l’impaginazione dubbia, l’andare a capo è ormai desueto, ci sarebbero gli strumenti adatti per evitarlo. Così toglie ritmo. Ma il dipanarsi della vicenda, che da assolata diventa, metaforicamente e non, nebbiosa, e poi chiarissima, fino al finale perfettamente intonato, terribile, rendono senz’altro l’opera un buon lavoro, seppur migliorabile con un po’ più di mestiere.
Più racconto che romanzo, se rivisto sarebbe magari fondamentale tassello di una raccolta da togliere il sonno. Stringendo i figli a sé, e guardando a certi falsi valori con la giusta superiorità.

(Giovanni Cattaneo)